mercoledì 2 giugno 2021

FESTA DELLA REPUBBLICA NATA COL DUBBIO DI UNA FRODE

I votanti furono 24 946 878, pari circa all'89,08% degli aventi diritto al voto, che risultavano essere 28 005 449; le schede convalidate furono 23 437 143, quelle invalidate (bianche incl.) 1 509 735. I risultati ufficiali del referendum istituzionale furono: repubblica voti 12 718 641 (pari a circa il 54,27% delle schede convalidate), monarchia voti 10 718 502 (pari a circa il 45,73% delle schede convalidate).

Analizzando i dati regione per regione si nota come l'Italia si fosse praticamente divisa in due: il nord, dove la repubblica aveva vinto con il 66,2%, e il sud, dove la monarchia aveva vinto con il 63,8%. 

Si dice che il referendum a favore della Repubblica sia stato manipolato nel suo risultato dall'allora ministro dell'interno Giuseppe Romita. A metà dello spoglio dei voti la monarchia era paradossalmente avanti grazie ai voti del sud. Non bastava che la monarchia avesse promosso il fascismo sin dalla sua nascita quando il re nano Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare lo stato d'assedio propostogli dal primo ministro Facta contro la scalcinata marcia fascista su Roma (Mussolini si trovava allora a Milano e arrivò a Roma in treno con vagone letto). Non ebbe alcunché da dire firmando le sciagurate leggi razziali. Il sud, con Napoli in testa, era rimasto incredibilmente monarchico. Nel Lazio repubblicani e monarchici erano pari nei voti. Dal Lazio in giù prevalevano i monarchici. Presi dal panico i fautori della Repubblica aspettarono la conclusione dello spoglio delle Regioni del nord. Forse nemmeno i voti del nord erano sufficienti a superare i voti del sud. E allora PARE che il ministro Romita, socialista, non essendoci un controllo dei voti che pervenivano al Ministero dell'interno, né vi erano controlli nei seggi elettorali, abbia rimediato gonfiando i voti a favore della Repubblica.

Nonostante la molteplice e duratura attività ministeriale, Romita è ricordato per essere stato il ministro dell'interno che gestì il  referendum istituzionale sulla scelta fra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946. Fu grazie al suo operato che si optò per un referendum popolare che decidesse la forma dello stato anziché lasciare tale decisione all'Assemblea Costituente. Per le sue idee repubblicane e per l'attivismo pro-referendum fu coinvolto nelle polemiche alimentate dagli ambienti per presunti brogli a favore della repubblica. In particolare il fatto che i risultati del referendum fossero stati resi pubblici solo il 5 giugno, a tre giorni dalle consultazioni, fomentò tale sospetto. Giuseppe Romita cercò di giustificarsi dicendo di essersi preoccupato di tutelare l'ordine pubblico perché i primi dati che giunsero dal sud Italia davano vincente la monarchia,  mentre in un secondo momento con l'arrivo dei dati dal nord le sorti si capovolsero. Il ministro temeva che l'alternarsi dei risultati riscaldasse il popolo già acceso e spaccato. Romita, fervente repubblicano, nei suoi diari scrisse del suo sconforto durante i primi momenti dello spoglio quando sembrava che la monarchia avesse vinto il referendum.
Paradosso:  Enrico De Nicola, provvisorio presidente della Repubblica, e Luigi Einaudi, primo presidente della Repubblica, avevano votato per la monarchia. 
Dopo l'incarico di formare il governo, conferito a Mussolini, il 31 ottobre 1922 De Nicola si ritrova a presiedere la Camera il giorno del discorso di insediamento, detto "del bivacco". Appoggia, quale misura eccezionale, la riforma elettorale nota come "legge Acerbo" (novembre 1923) e mantiene la presidenza della Camera fino al conseguente scioglimento della stessa (25 gennaio 1924). Poi, rieletto, rinuncia alla elezione e si limita alla sua professione di avvocato.  
Diversa la posizione di Einaudi durante il fascismo. Si avvicina al programma economico e finanziario del fascismo, più classicamente liberale, di cui era interprete Alberto De Stefani, che poi diverrà ministro delle Finanze nel governo Mussolini.  Una volta in carica, infatti, De Stefani provvide subito alla restituzione all'esercizio privato di tutte le funzioni economiche assunte dallo Stato durante la guerra, l'affidamento dei telefoni a compagnie private e la riduzione al minimo dei servizi marittimi sovvenzionati, in linea con i principi liberali di Einaudi. Alla condivisione per la politica economica di De Stefani, tuttavia, corrisponde, da parte di Einaudi, una sempre maggior diffidenza per i progetti di riforma costituzionale di Mussolini. A partire, infatti, dalla proposizione e dall'approvazione in Parlamento della legge elettorale maggioritaria e, soprattutto, dopo il delitto Matteotti, Einaudi si colloca politicamente a difesa dello Stato liberale pre-fascista.

Con l'avvento della dittatura fascista è costretto a limitare la sua attività accademica e ad interrompere quella politica. Nel novembre del 1924 aderisce all'Unione Nazionale di Giovanni Amendola e, nel 1925, è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Alla fine dello stesso anno si dimette da collaboratore del Corriere della Sera, già fascistizzato, a seguito dell'allontanamento di Luigi Albertini. L'anno dopo, ormai inviso al regime, viene estromesso dall'insegnamento all'Università Bocconi e al Politecnico di Torino. Nel 1931  è convinto da Benedetto Croce a mantenere almeno la cattedra universitaria della Facoltà di giurisprudenza di Torino, nonostante l'obbligo di prestare giuramento di fedeltà al fascismo  "per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà". Einaudi giura, onde evitare che il suo posto sia occupato da un professore fascista.

Al Senato fa parte dei 46 senatori che votano contro la legge elettorale che sancisce la lista unica formata dal Gran consiglio del fascismo (1928); non partecipa alla votazione per la ratifica dei Patti Lateranensi e vota contro l'ordine del giorno favorevole alla Guerra d'Etiopia e contro le leggi razziali del 1938.

1 commento:

Mauro b. ha detto...

Avrebbe vinto la monarchia, se le elezioni fossero state regolari, non truccate. Avrebbe vinto il Re di maggio, spilungone un po' lascivo, si vociferava più attratto dai corazzieri che dalle dame di corte. Ma le elezioni non sono mai regolari, sempre truccate.. I Savoia si erano già venduti 3 anni prima, opaca mediocre monarchia, vili sovrani da retrovie esperti nelle vie di fuga, nelle scappatoie. Traditori.

Bisognava dare al futuro spezzatino Italia, una parvenza di democrazia, una costituzione formale, inapplicabile,presuntuosa, mendace. Irritante. Una monarchia sarebbe stata di ostacolo, un regno di vattelappesca. Meglio la repubblica delle banane.

Non vi era molto da festeggiare ieri 2 giugno. Io non l'ho fatto.