venerdì 2 aprile 2021

PASTORI SARDI BASTARDI (2)

 

Dal mio libro Roba da Sardi. Ve la do io la Sardegna.

A coloro che, con la complicità di storici accademici recenti, presentano i sardi come vittime di cause esterne, e non come carnefici di se stessi, ecco offerta la loro vera identità, miserevole e spregevole, nata dalla subcultura pastorale. SARDI BASTARDI.

Tale identità è confortata dalla lettura di due opere documentatissime di Giuseppe Manno, Storia di Sardegna (1827) e Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799 (1842), per un totale di circa 1300 pagine. 

Chi avrà tanto spirito di sopportazione quanto è necessario per leggere le pagine che esporranno l’intricato svolgersi di una triste e miserevole storia di odi intestini durata per secoli, e ancor oggi  mai spenta, trarrà da poca fatica tanto guadagno, perché finalmente conoscerà la vera storia dei sardi e l'origine della loro miseria attuale, civile e politica. E quei pochi che non si riconosceranno in tali origini dovranno rinunciare a considerarsi sardi, capendo che la storia dei sardi può servire soltanto come punto di riferimento verso il basso e che ogni miglioramento dei sardi può appartenere soltanto al mondo dei sogni, quale il sogno che io ho fatto e che esporrò. Altrimenti vada il lettore alla p. 30 (secondo capoverso) per conoscere prima il contenuto del sogno, e poi torni a questa pagina per  trarre dalla storia miserevole e spregevole dei sardi la conferma che essi meritano soltanto di essere colonizzati e che l’autonomia regionale ha soltanto acuito le passate miserie alimentando l’ancestrale invidia distruttiva nel coltivare interessi parassitari locali parcellizzando il territorio per meglio offrirlo all’aggressione delle fucilate e delle bombe.

I sardi hanno conosciuto sempre una violenza senza scopo, non sublimata, che li ha fatti rimanere dei miserabili, quali ancora essi sono. Essi non appartengono nemmeno alla storia, che è sempre passata sopra la loro testa. I nomi dei sardi a cui sono state intitolate molte strade sono del tutto sconosciuti fuori della caverna sarda. Oggetto di studio da parte di altri miserabili che credono di poter nobilitare individui indegni di memoria anche nel male.  Così si è tentato di dare importanza a certi fatti nel vano tentativo di ricollegarli alla storia, che invece li ignora. Chi, facendo lo storico, cerca di nobilitare le miserie non si accorge di essere anch’egli un miserabile. Magari pagato con il danaro pubblico elargito da politici sardi per finanziare un’opera di falsificazione storica. Alla miseria si aggiunge la disonestà. 

I sardi, che mai furono un popolo, si meritarono per secoli la schiavitù. Poi, facendo parte dell’Italia, si meritarono i consigli regionali che sempre ebbero, specchio dell’incapacità politica alimentata dalle ancestrali divisioni ed invidie distruttive che ancor oggi, nella diffusa subcultura pastorale, sostituiscono l’omicidio alla giustizia.

Mi piace riportare quanto il grande scrittore francese Honoré de Balzac scrisse sui sardi dopo avere attraversato tutta la Sardegna da Alghero a Cagliari nel 1838: “Essi sono dei veri selvaggi. Non ho visto alcuna coltivazione. Savane di palme selvatiche e cisti. Dovunque pecore e capre che brucano tutti i germogli impedendo alla vegetazione di crescere oltre la cintura. Ho fatto 17 ore a cavallo senza trovare una casa. Foreste vergini. Le donne fanno un pane orribile riducendo in farina le ghiande delle querce e impastandolo con l’argilla. Uomini e donne vanno nudi con un brandello di tela e uno straccio per coprire il sesso. Ho visto accozzaglie di creature a branchi fermi al sole, lungo i muri di terra delle loro tane. Nessuna abitazione ha il camino. Accendono il fuoco in mezzo alla casa tutta piena e tappezzata di fuliggine. Le donne impastano il pane e gli uomini badano alle greggi. Tutto è incolto nel più bel paese del mondo. Uno spettacolo di profonda e incurabile miseria”.

Con danaro  non  sardo avevano recentemente costruito a Cagliari altri grossi edifici, che sembrano ministeri di Roma, mentre servivano ad estendere una inutile e dispendiosa burocrazia regionale per amministrare meno di un milione e seicentomila abitanti. Questi folli erano riusciti a portare al governo la loro follia. Avevano persino trasformato in elogio, mettendolo sempre più in pratica, il vituperio lanciato dall’arcivescovo di Cagliari Parragues, anche se erroneamente alcuni l’attribuiscono a  Carlo V: pocos, locos y male unidos. Per essi l’essere folli (locos) era una benemerenza, come lo era l’essere in pochi su territori divisi (male unidos) per spartirsi meglio la torta dei finanziamenti dei soldi non sardi. 

 Ma qui non si tratta di ricostruire nuove competenze, che non vi sono mai state. Qui si tratta di distruggere le vestigia di una storia di miserabili che dopo più di cinquant’anni di autonomia regionale pretendevano ancora di autogovernarsi con i soldi altrui continuando a vivere da parassiti dello Stato italiano, presentandosi sempre come vittime dell’insularità invece che di se stessi. Il governo di Roma ci dovrà concedere l’indipendenza perché noi non abbiamo più bisogno dei soldi altrui. E un popolo che non ha più bisogno di essere mantenuto ha anche il diritto di essere padrone del proprio futuro.

  Sardi, guardatevi alle spalle per capire che razza di gentaglia negli ultimi 50 anni ha “governato” la Sardegna. Un rapporto ottimale tra un territorio di circa 24.000 Km quadrati e una popolazione di 1 milione e seicentomila abitanti sino a pochi giorni fa, ma con una popolazione di più di 4 milioni di pecore e più di un milione di capre. Quasi 4 ovini per ogni abitante. Popolazione di mungitori di ovini e di danaro pubblico non sardo, ma con un apparato burocratico elefantiaco che serviva soltanto ai politici, parassiti e volgari, privi di competenze, per estendere la rete delle loro protezioni chiedendo finanziamenti allo Stato italiano e all’Europa per elargire elemosine agli altri ed autoriprodursi in un circolo vizioso infernale che doveva mantenere una farsa di consiglio regionale in cui si riproducevano le faide tribali tramite i partiti. Masnade di partiti in cui si rifugiavano molti individui senza mestiere, datisi alla politica per attribuirsi lauti stipendi di venti milioni di lire netti al mese.

  Avevo sempre sognato un programma politico che avesse escluso per sempre dalla Sardegna gli allevamenti di morte e dunque anche la pastorizia, che, parafrando il Manno, è stata sempre la maledizione del cielo sardo. A causa della pastorizia avevo sempre odiato il Natale e la Pasqua, trasformate ogni anno in una strage di agnelli, gli animali più mansueti della Terra. Ogni volta che si avvicinavano queste feste di sangue aumentavano la mia sofferenza e il mio odio contro una barbara e crudele tradizione che ha contagiato anche gli atei. Avevo inviato una lettera al papa Francesco chiedendo che rompesse il silenzio contro la crudele tradizione dell'agnello pasquale, ucciso per rispettare una antica tradizione ebraica e non cristiana. Gli avevo scritto che dopo il sacrificio della croce non era più necessario immolare animali come si faceva nel tempio-mattatoio ebraico. Avevo aggiunto che un altro S. Francesco, quello da Paola, migliore di quello carnivoro di Assisi, era stato vegano ed era vissuto ben 91 anni, mentre quello di Assisi era vissuto solo 44 anni.

  Lo stesso Benedetto XVI, seguendo il S. Paolo della Epistola ai Romani (3,25), aveva detto all'udienza generale del 7 gennaio 2009 che "Questo rito - quello ebraico del sacrificio degli animali - era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita. Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce.         
  Ma nemmeno Benedetto XVI era stato capace di gridarlo ai cristiani affacciandosi alla finestra  dante sulla piazza S. Pietro perché cessasse l’identificazione del Natale e della Pasqua con una strage di agnelli o capretti. E per risposta avevo ricevuto dal papa Francesco solo una ipocrita cartolina artistica che rinnovava il silenzio  sulle cristiane stragi di agnelli. E pertanto ero stato costretto ad odiare  anche i papi insieme con i pastori. Quando ero bambino capitò in casa, non mi ricordavo come, un capretto, che era stato regalato a mio padre. Non mi ricordavo per quale motivo mio padre avesse accettato in regalo un capretto vivo. Mi affezionai ad esso come se fosse un cane. Lo portavo a passeggio tenendolo al guinzaglio per fargli brucare l'erba  nella periferia di Cagliari, che allora era un vasto campo erboso su cui sarebbero poi sorti i palazzi della piazza Michelangelo e della piazza Giovanni XXIII. Mi divertivo a giocare con lui in casa alzando una gamba per mostrargli la pianta della scarpa  mentre gli dicevo in sardo: attumba caprittu (urta capretto). E lui prendeva la rincorsa per dare una tenera incornata alla suola della scarpa. Avevo capito che un capretto (o un agnello) non era meno capace di affettività rispetto ad un cane. E allora perché gli uomini si mangiano gli agnelli e non si mangiano i cani? mi domandavo. Anche ciò mi aveva indotto a divenire vegetariano, oltre al fatto di essere rimasto profondamente scioccato, sconvolto, vedendo all'età di 10 anni dei buoi correre impazziti per la via Sonnino dopo essere fuggiti dal mattatoio, che allora si trovava in una strada centrale della città. Piansi amaramente quando fui costretto a separarmi da lui  per volere di mio padre, che disse che non si poteva ulteriormente convivere al terzo piano di un palazzo con un capretto. Ma fui ingenuamente rassicurato che il capretto non avrebbe fatto la triste fine che attende tutti i suoi simili e che il pastore, pagato per questo, l'avrebbe risparmiato tenendolo in vita per la riproduzione. Ma certamente il capretto, prima o dopo, avrebbe fatto la stessa fine. Anche per questo avevo coltivato sempre un odio per i pastori, per una terra, che, tra tutte le regioni italiane, pur avendo una popolazione di soli un milione e seicentomila abitanti, aveva tratto dalla pastorizia la maggiore risorsa economica e il maggiore profitto esportando cadaveri di agnelli, sottratti alle madri piangenti che cercano i loro figli.  Pastori tanto crudeli quanto imbecilli per essere rimasti miserabili conservando la tradizione della produzione del latte ai fini del formaggio pecorino, anche se tratto da pecore malate del morbo della lingua blu o comunque trasmettenti nel latte l’antibiotico del vaccino per pecore, non avendo mai pensato di poter trarre maggior vantaggio economico sostituendo la pecora e la capra sarde, che danno una lana priva di valore, usata per tappeti o per isolanti termici, con altre razze di pecore e di capre dalla lana pregiata, come il cachemire e il merino, in modo da risparmiare i maschi, sapendo che il cachemire del maschio è ancora più pregiato. Una Sardegna che è stata sempre una terra di povertà espressa dal 45% di tutti gli ovini d’Italia pur con una popolazione di un milione e seicentomila abitanti. PASTORI SARDI BASTARDI. Una terra di miserabili che all'EXPO non aveva avuto vergogna di farsi rappresentare soprattutto dal maialetto arrosto. Un EXPO baraccone diseducativo e rovinoso per la salute come fiera di tutte le peggiori tradizioni alimentari.  

 

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