Dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
E’
contraddittorio che ognuno
per legittima difesa possa anticipare il suo aggressore
armato uccidendolo,
mentre si riconosce allo stesso aggressore che abbia
anticipato la vittima il
diritto di continuare a vivere. La legittima difesa
presuppone che nel momento
dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più
della tutela della
legge e che esso si ponga in uno stato di natura, ponendo
la sua vita alla
mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque perché lo
Stato restituisca la
tutela alla vita dell’assassino soltanto perché questo è
riuscito ad anticipare
la vittima.1]
Vi sono pubblici
ministeri e giudici, garantisti senza cervello, rammollito
dalla morale del buonismo, capaci ormai di incriminare e
condannare per omicidio
o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore
uccidendolo, certamente
convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi
uccidere, oppure che il rapinatore abbia il diritto di
fuggire con la refurtiva e che il rapinato non abbia il
diritto, per difendere i propri beni, di sparare al
rapinatore in fuga, potendo soltando affidarsi alle forze
dell'ordine, che, si sa, riescono quasi sempre a prendere
il rapinatore... per la coda. Il principio moralistico
sottointeso è che la vita del rapinatore valga sempre più
del bene rapinato. Non importa che in tal modo si
incoraggino le rapine. La giustizia
è in mano anche a questi individui, con la loro cultura del
buonismo che uccide
la giustizia.Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi
controllo di
merito del loro operato, non perché la giustizia abbia tempi
brevi e chi la
richiede non debba invecchiare o morire prima di una
sentenza.
[1] Il nostro
ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88),
che, riprendendo il pensiero
di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha il
diritto di punire i delitti
(II Trattato del
governo, II,
11), osserva, contro Beccaria (Dei
delitti e delle pene, 1764), che nello stato
di natura si perde il diritto
alla vita quando la si toglie ad altri, perché
ognuno ha il diritto di uccidere
il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il
suo diritto si trasferisce
da lui alla società. D’altra parte, non si
aggiunge mai che Beccaria continuò a
giustificare la pena di morte per quei delitti che
minano l’ordine
sociale. Riferimento
odierno potrebbero
essere le organizzazioni a delinquere come la mafia,
contro cui si devono usare
leggi di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie
costituzionali, conservando
le quali si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone,
se non colluso. Combattere
la mafia (che impiega la pena di morte) con il
garantismo delle leggi di pace,
e senza applicare la pena di morte, significa cercare
di contrastare un
esercito dotato di artiglieria pesante con un esercito
equipaggiato al massimo
con fucili. Poiché è impossibile estirpare la mafia
con metodi
democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia
si merita soltanto l’autogoverno
della mafia, senza aiuti economici da parte di altre
regioni. Ha scritto
Aristotele (Politica)
che ogni popolo
ha il governo che si merita. I capi mafia continuano a
comandare dal
carcere ricattando guardie e direttori del carcere. La
pena di morte
impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare ordini. E’
altrettanto
inconcepibile che non si applichi la pena di morte nei
confronti dei
trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la
loro vita sia degna di
rispetto significa corrompere lo stesso concetto di
giustizia. Essi minano
anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di
vista di Beccaria,
dovrebbero essere eliminati senza pietà.
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